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Editoriale
Numero 1
di Nero Acquaketa
Nelle pagine di “Malefatte” raccontiamo storie triestine. Probabilmente, alla fine, molte voleranno via come tante altre, ma noi saremo comunque felici di averle raccolte, illustrate e stampate. Ciò che abbiamo scritto è spesso frutto di ricerche che, con un po’ di fortuna, hanno portato a scoperte inedite. Alcune storie sono vissuti interessanti, altre solo bugie divertenti; al lettore l’arduo compito di scoprire fin dove si spinge lo scherzo e dov’è il confine della verità.
La Bora, il primo interprete delle Malefatte e dei fatti di questo territorio, per noi che qui scriviamo, è un semplice incipit, una nota d’avvio, un omaggio, che lascia sempre e comunque una traccia. Lascia un segno su carta di piccoli o grandi accadimenti, alcuni dimenticati o trascurati, di grandi notizie o eventi marginali, di libri da leggere, di film da scoprire o rivedere, di vini, di pittori, di scultori da raccontare, di poesie, di monumenti, luoghi, cibo, persone e di tanto altro ancora.
Chi scrive su questi fogli lo fa con un nome di penna, una scelta per garantire al lettore la qualità di quanto narrato che vuole così prescindere da firme prestigiose e riconosciute. Come editore sono profondamente grato a tutti quelli che hanno permesso la realizzazione di questo numero 1 che avrebbe dovuto, per coerenza, iniziare con il “22”, il numero dei matti, ma, si sa, nessuno è perfetto.
La narrazione dove convivono ironia e realtà è propria di Trieste, ereditiera del linguaggio caricaturale del mondo mitteleuropeo. Ruben, Padreterno, Mirko Dreck, Paride, Il Meschino, Monsieur Verdoux, Il Muto Parlante, Il Terzo Uomo e altri rimangono inarrivabili icone di quella esperienza che viene citata a ogni nuova pubblicazione, ma che io mi limito rispettosamente solo a ricordare.
A Trieste, durante le giornate sventolate c’è un fuori dove si viene shakerati o “sburtai” (spinti) o addirittura “ribaltai” (rovesciati, fatti cadere), e un dentro dove si viene accolti dove si racconta, cucina, legge o lavora. Noi triestini siamo abituati a lasciarci deformare dalle raffiche ma, anche se camminiamo come ubriachi, sappiamo raggiungere la meta protetta sottovento dove parlare volentieri di Trieste ai triestini e anche a chi “vien de fora”.
Chi vi scrive e inventa questa pubblicazione è della generazione della Tv in bianco e nero con solo due canali e la ruota con le lettere per sintonizzarsi con il programma “de l’altra parte”… Quando, nostro malgrado, c’era un vero “de qua” e un “de là”. Un “qua” e un “là” che se “prima” erano una magmatica frontiera di una “città immediata”, un giorno sono diventati una linea di separazione netta, reale e concettuale, profondamente imperfetta.
Siamo cresciuti in una città con le navi americane in porto mentre il pallottoliere elettorale, montato sul palazzo della Democrazia Cristiana in piazza San Giovanni, raccontava della gara fra i partiti, scandita dal cambio dei cartelli del conteggio dei voti. Siamo quelli dei nomi delle città jugoslave che nelle carte geografiche erano in italiano e che, poi, in dissolvenza sono apparse, senza che ne avessimo colpa, in serbocroato: Fiume-Rijeka, Abbazia-Opatija,Arbe-Rab… Siamo la generazione del silenzio dei genitori sugli avvenimenti passati o dei loro racconti urlati e disperati.
Siamo nati e vissuti in una città contesa fra il teorico centralismo euroregionale e la collocazione reale nella remota periferia geografica italiana, fra la sbandierata cultura mitteleuropea e l’analfabetismo della parola “Mitteleuropa”. Abbiamo vissuto fra rapide ricchezze e altrettanto quasi istantanee miserie, fra passato irrisolto e difficoltà progettuali per il futuro. Siamo quelli che hanno ereditato assieme al “volentieri” triestino, le indicazioni stradali da dare agli stranieri attraverso attività che da 50 anni non ci sono più e ne siamo, anche, orgogliosi. Spesso ignoriamo le bellezze, per noi quotidiane e scontate, che ci circondano, quelle apprezzate dai “foresti” che ce le descrivono e un po’ ci indigniamo per la loro scomparsa.
Il compito che qui ci siamo dati è far riaffiorare dalla memoria non troppo antica, cose che magari neanche tutti i triestini conoscono. Perché corriamo corriamo, come milanesi indaffarati, e guardiamo poco in su e molto poco più in là e spesso non guardiamo, ma semplicemente ce la godiamo questa maldestra, bella, nostalgica, ironica, intensa, segreta, sventagliata città, che merita di essere scoperta e raccontata.